In questo articolo pubblichiamo l’intervista condotta dal dott.
Michael Sgarbossa, laureando magistrale in Psicologia Cognitiva Applicata e tirocinante presso l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo, al dott. Eugenio Bedini e alla dott.ssa Alice Zampieri, autori del libro “Identità moderne. Come Internet ha cambiato il nostro modo di presentarci”.
Il vostro libro affronta un tema molto interessante, cioè come ci presentiamo nella rete e nei
social. Quali sono le motivazioni che vi hanno spinto a trattare questo argomento?
Personalmente ho iniziato a interessarmi a questo tema parecchio tempo fa; prima di tutto, faccio parte di quella generazione che ha visto nascere e diffondere Internet e le nuove tecnologie.
Ricordo ancora che il primo computer lo ebbi al liceo, e il primo telefono cellulare a 16 anni; era uno di quei modelli che a malapena chiamavano e mandavano sms, tra l’altro a pagamento. Poi con passare del tempo scoprii le chat, come Messenger, e poi avanti così fino al 2009 più o meno, quando vi fu il boom di Facebook, e da lì la diffusione dei social network. All’epoca stavo facendo praticantato con l’università, prima di laurearmi in psicologia, ed ebbi l’occasione di osservare terapeuti esperti che conducevano delle sedute con le famiglie; quello che mi colpì fu che iniziavo a vedere sempre più coppie in cui il tema di Internet era in qualche modo presente: lei aveva scoperto che il marito si sentiva in chat con un’altra donna, oppure la moglie aveva rincontrato una ex fiamma su Facebook, e così via. Questi due aspetti, ovvero il mio entrare progressivamente nel mondo di Internet e dei social, e il vedere l’effetto che facevano sui pazienti, mi spinsero a
interrogarmi sul modo in cui la Rete influiva su di noi e sulle nostre relazioni. Iniziai quindi a riflettere sul tema e a documentarmi.
Nel 2012 presentai un mio articolo a un convegno ad Abano Terme, dove affermai che la
letteratura sembrava ancora poco interessata al funzionamento “normale” delle persone in Rete; certo, c’erano molti articoli e ricerche sulla dipendenza, sui reati informatici, ma molto poco su come noi ci mostravamo in Rete e su come ci relazionavamo. Dopo quell’articolo mi fu proposto di guidare un gruppo di ricerca sul tema: conducemmo un’indagine nelle scuole del trevigiano, intervistando i ragazzi su come usassero la Rete, quanto la percepissero utile, e così via. Allo stesso tempo mi diplomai in psicoterapia sistemica con una tesi sul tema di Internet secondo un approccio sistemico-relazionale. Da quella tesi ricavai il mio primo libro, “Rete e connessioni”, che ebbe un discreto successo; mi fu richiesto di partecipare a serate informative e progetti sul tema.
Adesso conduco un altro gruppo di ricerca sul tema del cyberbullismo.
Nel frattempo, ho avuto modo di conoscere Alice (Zampieri, ndr), la quale, durante il suo percorso di studi di psicologia allo Iusve di Mestre, fece un periodo di praticantato nel mio studio privato.
Curiosamente, la sua tesi triennale affrontava il tema di come la nostra identità si modifica
all’interno della Rete: mi colpì molto. Decidemmo quindi di unire le nostre conoscenze: da questa collaborazione nacque “Identità moderne”.
Lo smartphone è ormai diventato un nostro inseparabile amico che ci dà accesso alla rete e
ai social. Cosa spinge le persone, secondo voi, a dedicare talvolta molto più tempo
all’utilizzo di questi strumenti a discapito di quello dedicato alla vita reale?
Questa è una bella domanda; prima di tutto c’è da dire che il Web è un mondo potenzialmente infinito, che contiene al suo interno informazioni, divertimenti, qualsiasi cosa noi potremmo cercare. Già nel momento in cui si diffuse in gran parte delle case apparve evidente come fosse così seduttivo da distrarci dal mondo esterno. La situazione si è complicata quando, pochi anni fa, la diffusione dei dispositivi e l’ampliamento delle zone wi-fi e delle reti mobili ci ha permesso di staccarci dal computer e dai muri della nostra stanza e di essere connessi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo: oggi abbiamo quindi accesso a un mondo gigantesco e ricchissimo semplicemente tenendo in mano uno smartphone.
Oltre a questo, c’è da dire che il mondo online spesso è più seducente di quello offline; è più ampio, permette di fare più cose insieme, è più veloce, più facile. Se voglio parlare con una persona le posso scrivere, posso pensare alla risposta, posso fingere una reazione emotiva che magari non provo veramente. Questo è un aspetto molto importante: la comunicazione online è più seduttiva di quella offline. Gli autori parlano di de-individuazione: il fatto che in Rete esista l’anonimato, o comunque che ci sia uno schermo che mi separa fisicamente dall’altro, permette di mettere in atto dei comportamenti e delle azioni che non metterei in atto se avessi la persona davanti; posso quindi essere più spregiudicato, più aggressivo, posso essere qualcuno che in realtà non sono. Si parla anche di identità in Rete come di un foglio bianco, indicando con tale termine che io mi posso mostrare come voglio, come qualcosa che magari non sono, piacendo così di più a chi mi osserva nel Web. Il limite di questo fenomeno è spiegato nella seconda parte del libro, quando parliamo dei cosiddetti fake, ovvero profili falsi che nulla hanno in comune con la persona che li crea. È un tentativo di essere qualcosa che non si è.
Non dimentichiamoci poi di quello che avviene dall’altra parte; così come io mi posso mostrare più “bello” di quello che mi sento realmente, così anche la persona dall’altra parte della chat o del social lo può fare. Anche lei quindi sarà molto bella e seducente per me, e anche la comunicazione con lei sarà più seducente. Al punto che, dicono gli autori, quanto spesso poi andiamo a conoscere offline la persona con cui ci sentiamo online? Poco, perché sappiamo che rischiamo di essere delusi, e allora preferiamo vivere nella nostra immagine illusoria dell’altro.
Quanto credete ci sia del nostro Sé reale nel nostro modo di presentarci nei social?
Mostriamo noi stessi più profondamente nella rete o nelle relazioni reali?
A questa domanda non è facile rispondere; alcuni studi sul tema riportano che ci mascheriamo molto in Rete, altri che siamo più spontanei, più noi stessi. Senza contare che nel momento in cui ci poniamo questa domanda abbiamo alla base l’idea che noi abbiamo un unico Sé, un’unica identità. In realtà, come diceva Pirandello e come è stato affermato più volte, il nostro Sé è complesso e articolato: è influenzato da quello che noi pensiamo di noi stessi ma anche da quello che gli altri pensano di noi; è influenzato dal nostro ruolo sociale, dal nostro contesto, addirittura dalla persona che abbiamo di fronte. Io potrò quindi essere in un modo con un mio amico ma pormi in un altro modo davanti a una conferenza di colleghi. Non si tratta di diversi Me, ma di parti diverse di Me, e fa differenza.
Detto questo, penso che dipenda molto da dove ci troviamo, da chi abbiamo di fronte. Quello di cui sono convinto è che le caratteristiche della Rete vadano a incidere molto sul nostro modo di presentarci e di mostrarci, fermo restando poi l’elemento soggettivo, ovvero quanto uno poi risenta di questa influenza. In generale, comunque, l’avere davanti a noi uno schermo e una tastiera ci fa sentire più svincolati dalle norme sociali, quindi più liberi, più impavidi; naturalmente questo ci può portare anche ad essere più maleducati, più cattivi, e via dicendo. Un fenomeno comune ad esempio è il flaming, ovvero il rispondere con insulti e minacce nelle discussioni online, semplicemente perché abbiamo lo schermo che ci protegge e non ci può accadere nulla.
Il nostro Sé virtuale può influenzare il nostro modo di essere nel mondo reale? Se si, quanto e in che modo?
Sicuramente quello che accade online ha un’influenza sulla nostra vita offline, anche se credo non ci rendiamo conto di questa influenza: tendiamo a percepire i due mondi come separati e credo ci vorrà ancora del tempo perché questa connessione sia più evidente.
Credo, paradossalmente, che siano gli adolescenti quelli che percepiscono di più la connessione tra mondo online e mondo offline, forse perché loro ci sono nati e cresciuti, non hanno visto le due cose separatamente come possiamo farlo noi. Sanno che le azioni fatte nei social hanno un effetto fuori, e viceversa.
A questo proposito, per rispondere alla domanda, mi viene in mente quello che dicono alcuni autori, ovvero che Internet può essere considerato una palestra identitaria per i ragazzi: nel Web, come dicevo prima, possiamo mostrarci per quello che siamo ma anche per qualcun altro, in un certo senso. Possiamo anche prendere come modello altre figure, non necessariamente quelle vicine a noi. In questo modo un adolescente, che nella sua fase di vita sta cercando un modo di essere e un posto nel mondo, può sperimentare se stesso in vari modi, cercando di mettere in gioco parti diverse del sé. Sulla base poi di come andranno le cose, potrà scegliere quali parti predilige e farle sue. In questo modo, la Rete ha contribuito al suo crescere e al suo farsi adulto.
Credo che in qualche modo questo sia vero anche per un adulto. Può accadere che in Rete mi venga più facile sbloccarmi, che mi senta più sicuro, magari più cercato, e via dicendo. In qualche modo questo ha un effetto anche nell’offline, perché queste conquiste potrei portarmele anche al di fuori della Rete.
Secondo voi come va a impattare la nostra identità virtuale sullo sviluppo di relazioni (amorose e non) e sulla loro gestione?
Qui si apre un’area di discussione a parte; prima di tutto, generalmente si è più in contatto con i cosiddetti legami deboli che con quelli forti; vale a dire che di solito in Rete sentiamo di più persone come amici lontani, ex compagni di università, conoscenti, che amici del cuore o partner. Tanto è vero che ci sono molte teorie che sottolineano come siano questi legami deboli a dare struttura ai social network, e non quelli più importanti. Questo perché se i legami sono forti, come col partner, non abbiamo molto bisogno dei social network per mantenere il contatto. Salvo ovviamente casi particolari come coppie fisicamente distanti.
Quindi da questo punto di vista possiamo ipotizzare che non ci sia un’influenza diretta sulla relazione amorosa. Tranne, mi viene da dire, se il partner lo conosco online, come avviene spesso in questi ultimi anni, e quindi sono influenzato da quei meccanismi che dicevamo prima, ovvero che nel Web mi posso mostrare in un modo tale che poi dovrà avvenire un confronto con ciò che mostro nell’interazione vis-à-vis. Inoltre penso anche a quello che faccio con la mia identità online; prendiamo ad esempio che io decida di fingermi una persona diversa, magari single, quando in realtà sono sposato, e riesca a conquistare una donna. Questo in qualche modo avrà un effetto sulla mia relazione con mia moglie, no? Quindi ci sono alcuni casi in cui la mia identità in Rete può influenzare la mia relazione.
Vorrei aggiungere una cosa: nel 2013-2014 ho svolto una ricerca in alcuni istituti superiori del trevigiano e ho chiesto ai ragazzi come secondo loro la comunicazione online influenzasse le loro relazioni al di fuori della Rete; curiosamente, tra le altre cose riferirono che sentire qualcuno attraverso Internet, quindi chat e social network, ha secondo loro una cattiva influenza sulla relazione con la persona amata.
È stato interessante osservare come questa affermazione venisse proprio dai ragazzi, che spesso vengono accusati di non avere un occhio critico sulle nuove tecnologie.
Quali sono secondo voi i bisogni che spingono una persona ad investire una gran parte del
suo tempo in un profilo social? (Visibilità, approvazione, autostima?)
Sicuramente i social network ci hanno permesso di ottenere visibilità, di sentirci visti e riconosciuti dagli altri. Gianfranco Cecchin ha detto che noi esistiamo nella misura in cui siamo visti da qualcuno; la Rete ci fa sentire visti dagli altri, che ci siamo e che qualcuno ci vede! Andy Warhol diceva che tutti noi avremmo avuto 15 minuti di popolarità. In un certo senso, Internet ci ha reso tutti popolari. E noi siamo affamati di questa popolarità: fin dall’inizio, quando Facebook è esploso, siamo stati attenti a quanti contatti avevamo, quanti like ricevevamo, e così via. Ci restiamo male se nessuno mette mi piace a un nostro post, perché è come se volesse dire che quello che facciamo o diciamo non piace a nessuno o, ancora peggio, non viene visto. Anche in questo ci sono delle posizioni estreme; soprattutto in adolescenza, il numero di contatti e di like diventa un fattore discriminante tra chi è “figo” e chi è “sfigato”. Questa ricerca di views, o di visibilità, ha creato anche un’altra realtà, quella delle star del Web, degli influencer, cioè quelli che hanno così tanto contatti da influenzare le azioni e i gusti degli altri; sono quelli che si possono permettere di mangiare gratis al ristorante perché gli fanno pubblicità o ricevono i prodotti gratis dalle aziende.
Questo fenomeno ha spinto molti adolescenti a dire “io voglio fare quello!”. Ma anche al di là dell’influencer, sembra quasi che essere visti online sia l’obiettivo; ci fa sentire orgogliosi, magari anche invidiati.
In tutto questo ovviamente gioca un ruolo importante l’emulazione. Già quando Facebook è esploso in Italia, la domanda ricorrente è “ma tu ci sei su Facebook??”. Così come adesso sembra strano che una persona non abbia WhatsApp o Instagram. Al giorno d’oggi bisogna essere online: lo chiede anche la scuola, lo chiede il capo al lavoro, lo chiede il gruppo delle mamme che portano i loro figli nella stessa scuola dei tuoi, e così via… e una volta che si è dentro, si entra nella logica, quindi si cercano i contatti, si cerca di avere like, …
È un mondo seducente, ricco di stimoli, in cui abbiamo tutto a portata di mano, possiamo essere chi vogliamo, sentire chi vogliamo, trovare tutto quello che cerchiamo. Ci permette di evadere dalla nostra realtà e andare dove vogliamo, essere come vogliamo. Quel film di Spielberg, “Ready player one”, dove la gente sfugge dal proprio mondo e si rifugia in una realtà virtuale, rappresenta in modo impeccabile quello che sta accadendo, in un certo senso.
Secondo voi si può parlare di una diversa morale quando si è in rete?
Si può parlare di una diversa logica anche. In Rete si può fare quello che si vuole, perché non esiste un pericolo reale. L’altro non ci può mettere le mani addosso o altro; se le cose degenerano, basta chiudere il computer o lo smartphone e tutto scompare. C’è una bella immagine dei Simpson che esprime bene questo concetto: due cani legati a due pali che si ringhiano contro; quando le due catene si rompono e potrebbero azzuffarsi, guaiscono e stanno buoni. È il fenomeno dei “leoni da tastiera”: se io sono online, posso sentirmi libero di dire ciò che voglio, insultare, ecc. Quindi sì, possiamo parlare di una nuova morale intesa come di un nuovo modo di relazionarsi verso l’altro. Il punto è che questo modo di fare a volte ci porta all’estremo: il cyberbullismo ne è un chiaro esempio. Non vedo l’altra persona, non vedo gli effetti che provoco e quindi il mio comportamento è all’eccesso.
In alcuni casi la figura del moderatore, ad esempio nei forum o nei gruppo Facebook, è utile perché fa in modo che certe cose non accadano. Ma la cosa davvero importante è che vi sia prevenzione su questi fenomeni, che si insegni ai ragazzi quali sono i rischi e le opportunità del Web; è importante anche che noi adulti, come professionisti e come persone, non smettiamo di imparare e di ragionare su questo tema. Il web è complesso, molto veloce, in rapido cambiamento.
Noi dobbiamo essere dentro quel cambiamento e starci al passo, il più possibile, per cogliere le sfumature di tutto ciò che accade.
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Contatti:
Dott. Eugenio Bedini: eugenio.bedini@ordinepsicologiveneto.it
Dott.ssa Alice Zampieri: alice.zampieri@hotmail.it
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