Spesso evitiamo di chiederlo, forse perché pensiamo di saperlo o perché la risposta ci spaventa. La rivista americana “MIT Technology Review” del Massachusetts Institute of Tecnology, che seleziona e documenta le più importanti innovazioni tecnologiche, valutandone il concreto impatto sulla vita quotidiana, ha posto un interessante domanda in un concorso a chiunque avesse almeno 18 anni: "Cosa non sanno gli adulti della mia generazione e del significato della tecnologia per noi giovani?"
Sono arrivate 376 risposte, proposte da giovani di 28 paesi diversi. La vincitrice del concorso è stata la giovane Taylor Fang, dello stato dello Utah, con uno saggio che propone un punto di vista per niente superficiale e molto toccante rispetto a come la tecnologia può fare parte della nostra vita.
Il suo scritto è diventato una specie di lettera aperta al mondo adulto in cui esprime una serie di questioni che potrebbero aiutarci a riflettere e costruire percorsi di avvicinamento al mondo adolescente. Vi propongo alcuni passaggi del suo saggio con un mio commento per facilitare la riflessione:
“Schermo. Per nascondere, proteggere, rifugiarsi. La parola significa invisibilità. Mi sono nascosta dietro lo schermo. Nessuno può vedermi. Un riparo fatto di sensori e lastre di vetro e un lieve bagliore ai bordi; leggero, più blu di una giornata estiva. Lo schermo nasconde coloro che lo usano.”
Già in queste prime righe colpisce l’idea di “protezione” e “rifugio” che la ragazza attribuisce allo schermo, come se oltre, nel mondo “reale”, ci fosse qualcosa di minaccioso, qualcosa che potrebbe provocare dei danni, da cui bisogna trovare “riparo”. Sarebbe opportuno domandarci quindi, quale mondo rappresentiamo ai giovani oggi? Quali sono i pericoli a cui crediamo che siano esposti? Che atteggiamento adottiamo noi di fronte a queste “minacce”?
La ragazza prosegue:
“La generazione Z è privilegiata, depressa, allo sbando, dipendente e apatica. O almeno questo è ciò che gli adulti dicono di noi. Ma gli adolescenti non usano i social media solo per stare online e per le reti sociali. Vanno più in profondità. Le piattaforme di social media sono tra le nostre uniche possibilità di creare e modellare il nostro “senso di sé”. I social media ci fanno sentire al centro dell’attenzione. Nelle nostre "biografie" di Instagram, curiamo una linea di emoji che caratterizzano le nostre passioni: sci, arte, cultura, corsa.”
Ogni volta che critichiamo e giudichiamo negativamente il rapporto dei giovani con la tecnologia dovremmo tenere a mente che i ragazzi non fanno niente per caso. In ogni scelta che loro fanno c’è una motivazione, accettabile o meno, ma c’è sempre una motivazione e a volte le strade che percorrono, se non sono le uniche disponibili, almeno sono le uniche che loro riescono a vedere. Ed il più delle volte la consapevolezza che possono avere sui rischi e le opportunità che offre la tecnologia è più profonda di quanto pensiamo:
“È vero che il flusso costante di immagini idealizzate dei social media ha un suo pedaggio da pagare: sulla nostra salute mentale, sulla nostra immagine di sé e sulla nostra vita sociale. Dopotutto, i nostri rapporti con la tecnologia sono multidimensionali: ci rafforzano tanto quanto ci fanno sentire insicuri.”
Ma la giovane Taylor ci abbozza anche una strada alternativa:
“Ma se gli adulti sono preoccupati per le ricadute dei social media, dovrebbero iniziare a includere gli adolescenti nelle conversazioni sulla tecnologia. Dovrebbero ascoltare le idee e le visioni degli adolescenti per cambiamenti positivi nello spazio digitale. Dovrebbero indicare modi alternativi per gli adolescenti di esprimere il loro pensiero.
Invece di ridurre gli adolescenti alle statistiche, dovremmo assicurarci che gli adolescenti abbiano la possibilità di raccontare le proprie esperienze in modo creativo. Si prenda l'esempio dei "selfie". Molti adulti li vedono solo come immagini narcisistiche da far vedere a tutti gli altri. Ma il selfie rappresenta anche una testimonianza e una incontestabile dichiarazione del tipo: “c’ero”. Proprio come Frida Kahlo ha dipinto gli autoritratti, i nostri selfie costruiscono una piccola parte di ciò che siamo. I nostri selfie, anche se sono unidimensionali, sono importanti per noi.”
Mi domando se siamo pronti a cogliere la sfida, se siamo pronti a mettere in discussione le nostre certezze per andare incontro a una generazione che vive in un mondo completamente diverso da quello in cui siamo cresciuti noi. Una generazione che non fa rumore, che non urla il suo malessere ma lo vive in silenzio, con poche parole e tante immagini:
“In questo momento storico difficile, tutti abbiamo la necessità di sentirci meno soli e di contare in qualche modo. Gli adolescenti sono criticati per la loro “assenza”. Ma siamo visibili grazie alla tecnologia. I nostri selfie non sono solo immagini; rappresentano la nostra idea di quello che siamo.”
Infine, per spingerci ancora alla riflessione, conclude illustrandoci quello che potrebbe essere un manifesto di questa generazione:
“Crescere con la tecnologia, come ha fatto la mia generazione, significa interrogarsi costantemente sul sé, dividersi in molteplicità, cercare di contenere le nostre contraddizioni.”
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